Photoshop: uno strumento che oggi è considerato il punto di riferimento nell’elaborazione dei nostri negativi digitali. Ma come era la vita nella camera oscura prima di Photoshop?
Ecco una breve sintesi dell’esperienza di mio padre, dove spiega alcuni procedimenti per il ritocco fotografico realizzato fino al 1980. Una premessa: la pratica di ritoccare le immagini fotografiche nasce con la stessa fotografia.
DALLE ORIGINI IN CAMERA OSCURA AL TAVOLO DI LAVORO: L’EVOLUZIONE DEL RITOCCO FOTOGRAFICO
Fin dalle origini, la stampa su carta di immagini della realtà che ci circonda, umana e materiale, si è servita di piccoli e ingegnevoli processi, utili a migliorare il risultato finale. Forse sarebbe meglio dire che per produrre un risultato ottimo, cioè una foto degna per essere commercialmente prodotta da un professionista del settore, deve subire diversi trattamenti. Il tutto per bilanciare equamente le parti in luce e le parti in ombra. Fondamentali di base per trasmettere, tramite la bidimensione della fotografia, la tridimensionalità di soggetti ritratti.
LA MASCHERATURA
Dal nero profondo al bianco della carta fotografica, passando per una scala di grigi. Milioni di puntini di gradazione diversa spalmati nella superficie del negativo. Quest’ultimo doveva essere inserito nell’ingranditore: fornito di un alloggiamento particolareggiato, di cui sopra stava una lampada e di sotto un obiettivo per formare l’immagine e trasferirla nella carta. Questa pratica eseguita in camera oscura poteva durare qualche secondo o anche minuti.
Decideva il fotografo, regolando il diaframma dell’obiettivo. Realizzare una foto in camera oscura tramite l’ingranditore è come fare la fotografia una seconda volta. La differenza sta che al primo scatto con la macchina fotografica, il professionista doveva stare attento oltre che alla quantità di luce presente nell’ambiente, a prestare attenzione anche al movimento del soggetto e della stessa fotocamera. Nella camera oscura si poteva sistemare la quantità di luce che doveva colpire la carta sensibile tramite la mascheratura, ossia ombreggiare il fascio di luce che colpisce la carta durante l’esposizione, con una mano o un pezzo di cartoncino nero.
Non è semplice, bisogna fare le prove, ondeggiando lievemente fra l’esterno dell’immagine e l’interno, con vari passaggi. Bisogna inoltre calcolare la distanza fra carta sensibile e cartoncino. Non bisogna mai essere fermi e stabili, perchè creerebbe un taglio netto fra bianco e nero. Si parte dalla base di avere la carta bianca; perciò il fascio di luce serve ad annerire la carta, cioè l’ombra nella realtà. Se questa zona d’ombra vuole essere ammorbidita in un grigio, bisogna mascherare. Se il punto che interessa effettuare la mascheratura si trova nella zona centrale, bisogna realizzare un cartoncino grande quanto l’area interessata e a questo cartoncino incollare un pezzetto di fil di ferro, per permettere al fotografo di agire senza ombreggiare le altre zone limitrofe.
Se si vuole creare l’effetto contrario, cioè più nero, la pratica è:
- calcolare il tempo necessario per esporre correttamente l’intera immagine
- proseguire l’esposizione mascherando la parte che non interessa all’operazione di scuritura facendo fare l’operazione dello scuramento al fascio di luce proveniente dall’ingranditore.
- Ottenuta una stampa con la scala dei grigi a proprio gradimento si prosegue con il ritocco della stampa cartacea.
INCHIOSTRO E MATITE DURE
Prima della fase del ritocco
Prima della fase del ritocco
Usciti dalla camera oscura il fotografo si siede in un tavolo con una buona illuminazione, armati da una serie di utensili che servono a correggere piccole imperfezioni. Matite dure tipo 6h, 4h, 2h che devono essere rigorosamente appuntite tramite la sfregatura su una carta abrasiva con grani fini. Pulita la punta su un batuffolo di cotone si inizia a intervenire in quelle zone dove sussistono tracce più chiare. Una pratica comune a tutti è la spuntinatura ovvero togliere tutti quei puntini causati dalla presenza di polvere, presente in camera oscura durante l’esposizione della carta sensibile. Si effetta tramite l’inchiostro di china a pezzo duro e un pennello finissimo; con una goccia di saliva sull’unghia del pollice sinistro poi si prende l’inchiostro duro e si sfrega lasciando sciogliere un pò di inchiostro.
L’unghia sarà la nostra tavolozza, dove svilupperemo il grigio più adatto per l’intervento di ritocco. Un leggero bagnamento con le le labbra e un continuo scioglimento nell’unghia. Questa è la prima pratica che un giovane fotografo doveva essere in grado di eseguire.
Se la fotografia presentava delle zone più scure del solito, naturalmente piccole, perchè per le grandi c’è la mascheratura accennata sopra, si utilizzava un piccolo raschietto con la punta a 70° circa e i due lati taglienti; raschietto che veniva molato su una pietra durissima atta allo scopo.
Con colpi precisi, senza affondare troppo nello strato esposto, senza andare a scavare fino al raggiungimento dello strato di supporto dell’immagine.
Alla fine del lavoro di ritocco si spruzzava omogeneamente uno strato di alcool, che creava una platina di protezione al ritocco effettuato e toglieva quei riflessi prodotti dal grasso della grafite delle matite adoperate. La stampa era pronta per la consegna.
Questo era il mondo artigianale del fotografo professionista prima dell’avvento del computer. Prima i fotografi avevano le mani nere e l’unghia nerissima, mani sporche ma abili mani di pionieri dell’immagine.